LA PASQUA DEL SILENZIO

Riflessione a Cura di Fulvio Pedretti

Questo difficile periodo di quarantena finirà. Non sappiamo bene quando, ma sicuramente finirà. L’attenzione così forte ai contagi gradualmente diminuirà, come è giusto che sia, e si tornerà alla normalità. Ci saranno certamente conseguenze economiche, politiche e lavorative, vere e proprie sfide per la società nella quale viviamo.

Penso anche che ci sarà parecchio lavoro da fare per tutti quelli che hanno un compito di accompagnamento delle persone, soprattutto riguardo all’elaborazione del lutto, al periodo di convivenza forzata, alla solitudine vissuta, alla gestione dell’ansia… Certamente saranno in prima linea psicologi e aiuti di ogni tipo, ma anche i sacerdoti e tutti gli educatori che, all’interno di ogni comunità ecclesiale, svolgono questo servizio.

Cosa diremo? Come risponderemo alla ricerca di senso delle persone che ci chiederanno un aiuto? In che modo accompagneremo chi ci chiederà una presenza vicino a sé? Queste sono domande davvero delicate e importanti, che dobbiamo porci con serietà, perché su di esse si giocherà una buona parte della credibilità della Chiesa.

Per provare a dare qualche risposta ci viene fortunatamente incontro questa nuova e, per certi versi, “anomala” Pasqua di Risurrezione.

«Dapprima siamo stati esiliati e da tutti perseguitati e caricati a morte; tuttavia abbiamo celebrato anche allora la festa pasquale. Ogni luogo, dove si soffriva, fosse esso un campo, un deserto, una nave, una locanda, un carcere, diveniva come un tempio per le assemblee sacre; i martiri perfetti celebravano una festa più perfetta di tutte, partecipi del convito celeste» (Dionigi Alessandrino, in EUSEBIO, Storia ecc. VII, 22, 4).

Le parole riportate qui sopra sono di Dionigi, vescovo di Alessandria d’Egitto verso la metà del terzo secolo d.C.  Dionigi racconta di una celebrazione della Pasqua avvenuta all’epoca della persecuzione dell’imperatore romano Decio (249-251 d.C.). Si trattò di una Pasqua celebrata non nei luoghi di culto, ma «in ogni luogo dove si soffriva»: nei campi, nei deserti, su una nave o in prigione… eppure, la Pasqua fu celebrata. Fu celebrata non con dei riti, ma attraverso la tribolazione dei cristiani, tribolazione che li unì, nel modo più forte che ci potesse essere, al passaggio di Gesù Cristo da morte a vita.

Casualmente mi sono ritrovato nella lettura di questo testo… Mi sono stupito della sua straordinaria attualità, che lo rende quanto mai moderno e valido anche per noi e per le celebrazioni della Settimana Santa e della Pasqua vissute in questo 2020. Ho ripensato a quei cristiani che diciotto secoli fa non avevano chiese, erano soggetti a feroci persecuzioni, partecipavano anche allora dei mali di tutti (il vescovo Dionigi racconta che, dopo quella Pasqua, ci fu anche una pestilenza e che i cristiani si distinsero nel soccorso ai malati, cristiani o pagani che fossero…), eppure celebrarono la Pasqua: e ritennero anzi quella celebrazione, quella Pasqua di passione, il modo migliore per «fare Pasqua».

Da parte nostra abbiamo sperato che l’emergenza sanitaria, incominciata in Lombardia pochi giorni prima dell’inizio della Quaresima, si potesse concludere presto. Abbiamo desiderato che le nostre chiese, svuotate per le misure di sicurezza alle quali abbiamo aderito subito, con sacrificio e senso di responsabilità, potessero riempiersi per lasciare risuonare l’Alleluia pasquale…

E invece, anche se non siamo perseguitati, la nostra Pasqua assomiglia a quella descritta da Dionigi di Alessandria. Anche se vi sono stati celebrati i riti previsti, le nostre chiese saranno rimaste vuote. A noi la sfida di far sì che ogni luogo nel quale ci troveremo nei giorni santi – principalmente le nostre case – diventino luogo della «festa» cristiana per eccellenza, luogo di una santa Pasqua.

Non siate solo «spettatori».

Le settimane dell’emergenza sanitaria sono state anche le settimane dell’esplosione delle trasmissioni di celebrazioni di ogni genere: in televisione, per radio, in diretta streaming sui vari social… Potrebbe essere questa la “soluzione”? I riti della Settimana Santa presieduti dal Papa sono stati trasmessi in vari modi, così pure le celebrazioni dell’Arcivescovo Mario e quelle della nostra parrocchia: ognuno di noi ha così la possibilità di “seguire” la Settimana Santa e la Veglia Pasquale.

Ma, proprio per questo, siamo invitati a non essere solo «spettatori». Sarebbe un errore affidare il nostro desiderio di vivere la Pasqua principalmente ai mezzi di comunicazione.

Sentiamoci protagonisti, e non solo spettatori.

C’è un modo di “guardare”. Anche per quanto riguarda televisione, computer o cellulari c’è modo e modo di essere «spettatori». Il corpo non è insignificante per la nostra vita di fede.

Se decidiamo di seguire una celebrazione trasmessa in TV o in diretta streaming, cerchiamo di farlo con compostezza e raccoglimento e, naturalmente, evitando il multitasking. Soprattutto in famiglia sarebbe utile tenere in qualche posizione non troppo lontana dallo schermo un segno che ci aiuti: il crocifisso, un’icona, la Bibbia, un cero acceso…

Mai come quest’anno possiamo sentire che le circostanze che stiamo vivendo non ci stanno “derubando” della Pasqua: se mai, ce la stanno restituendo, perché ci aiutano ad andare all’essenziale.

Un grande testimone di questo «stile di Pasqua», il beato Pierre Claverie, vescovo in Algeria, ucciso nell’agosto del 1996 e beatificato insieme con altri diciotto cristiani martirizzati in quegli anni in Algeria, scriveva così: «Le crisi che attraversiamo, la morte che sfioriamo, ci costringono a rivelare le nostre ragioni di vivere… Le scosse e gli impoverimenti, che c’impongono le circostanze difficili, possono essere benefici se dissipano le illusioni e le false apparenze. Si tratta di altrettante “morti”, di strappi a volte dolorosi, senza i quali rischiamo di vivere alla superficie di noi stessi, unicamente preoccupati delle apparenze ed esposti a qualsiasi crollo. La nostra vita può allora diventare più giusta, più forte e più vera».

Tutto ciò si compie nel mistero pasquale. Non solo nei giorni in cui la morte e la vita si affrontano sul Golgota. La morte non è più il recinto in cui va a inciampare ogni speranza, ma la soglia di una vita nuova, più giusta, più forte e più vera. Non è più la negazione della vita, ma la condizione della sua crescita e della sua fecondità…

C’è qualcosa di “innaturale”, in queste settimane: il grande silenzio che grava sulle nostre città e sui nostri paesi, interrotto quasi soltanto dal suono delle sirene delle ambulanze. È un silenzio a cui non siamo abituati e che in certa misura ci sgomenta. È il silenzio anche del giorno del Sabato Santo. È il giorno in cui la Chiesa veglia presso il sepolcro del Signore, e tace. Non del tutto, perché continua a pregare; ma lo fa con una consapevolezza diversa da quella di tutti gli altri giorni.

 La Veglia della notte di Pasqua

«Notte più chiara del giorno, notte più bianca della neve; l’oscurità, luminosa più del sole, fa impallidire le nostre lampade accese»: così un vescovo del V secolo, Asterio di Amasea, cantava la notte pasquale, nella quale i cristiani vegliano per partecipare, con la fede e i sacramenti, al passaggio di Cristo da morte a vita.

È bello immergersi e lasciarsi cullare dal lungo racconto della salvezza di Dio, della sua Pasqua preannunciata nella luce che vince le tenebre del mondo, nel sacrificio di Isacco, nel passaggio del mare, nelle sventure e nelle promesse dell’esilio… Questa è la storia meravigliosa che ci racconta sempre il desiderio inesauribile di Dio di farci passare dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, dalla tribolazione alla gioia, dall’avvilimento alla speranza.

Come le donne che si recano sulla tomba di Gesù, in questi giorni ci chiediamo chi potrà togliere dal nostro cuore i macigni che queste ultime settimane vi hanno accumulato.

Scopriremo di essere attesi: ma non in una tomba, non in un luogo di morte. Siamo attesi dal Vivente, dal Risorto. Scopriremo che Egli non ha disertato i nostri ospedali, né le case per anziani, i luoghi del lavoro interrotto, gli spazi del nostro ritrovarci, le stanze delle nostre famiglie… Egli era lì, è lì: il Risorto ha il volto del giardiniere, del fornaio, dell’infermiere, del mendicante. Ha i volti della vita di ogni giorno, ma sono i nostri occhi che non sono in grado di riconoscerlo: a meno che non sia lui ad aprirli, a chiamarci per nome, a dirci la parola che ci farà ancora gettare le reti, ricominciare il nostro cammino, continuare a prenderci cura di chi soffre, dei nostri piccoli e dei nostri vecchi, dei vicini e dei lontani…

La Pasqua potrà, allora, insegnarci a uscire dalla crisi di queste settimane, non soltanto per “tornare” alle cose di prima, e che tanto ci mancano, ma anche – e soprattutto – per inventare con la fantasia dello Spirito Santo modi nuovi e diversi di essere insieme, di abitare il nostro mondo, di guardare al nostro futuro, di sperare e generare vita, e «vita eterna»?

Per noi cristiani, per la Chiesa, questa è una sfida decisiva.

L’abbraccio che ci manca

Il principale canto di Pasqua della liturgia orientale dice: «È il giorno della Risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa, abbracciamoci gli uni gli altri, chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano, perdoniamo tutto per la risurrezione e cantiamo così: Cristo è risorto dai morti, con la morte calpestando la morte, e ai morti nei sepolcri donando la vita».

«Abbracciamoci gli uni gli altri…»: forse è la cosa che ci manca di più, in questa Pasqua! Ci sia data la grazia di ritrovare presto questo abbraccio, “sacramento” anch’esso, a suo modo, dell’amore fedele del Padre, che nel suo Figlio morto e risorto dona sempre la vita al mondo.

Buona Pasqua!

                                                             Fulvio Pedretti

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